Torna il cinema di Orson Welles, dopo la caldissima estate di quest'anno, ho messo da parte parecchie cose che stavo facendo, e il percorso cinematografico personale si è arrestato, ma continua ovviamente quando si rinfresca il tempo - dalle mie parti il sole picchia in testa come un assassino, come cantava in siciliano il grande Lucio Dalla - ma andiamo a noi.
Qui abbiamo un racconto adattato a diverse opere di Shakespeare, facendone un racconto originale e di incredibile avventura.
E' certamente un film particolare, che bisogna guardare attentamente e seguire in modo che si capisce bene.
Tutti i film diretti dal grande Welles, bene o male sono indimenticabili, perchè principalmente lui era un genio, uno dei giganti della settima arte.
La particolarità di questo film sta appunto nel mettere in scena diverse opere del bardo, Enrico IV, Enrico V, Le allegre comari di Windsor e Riccardo II
Soltanto Welles, poteva unire quattro opere diverse del bardo in un unico grandissimo film.
E non solo, lo ha anche interpretato, lui, omone gigantesco, forse truccato o forse no, non ci è dato a saperlo, colpisce proprio sia per la bravura interpretativa, sia per la regia attenta e che rispetta lo stile pungente del bardo.
E' un opera particolare, quindi per questo motivo l'ho messo nei cult movies,di difficile reperibilità, io l'ho beccato grazie al p2p e me lo sono goduto.
Naturalmente c'è da dire che ogni sfaccettatura della pellicola ti colpisce, sia per la capacità di Welles, di conoscere bene la trama di queste opere e di ricavarne un mix facendone un film tutto suo e rendendo omaggio a uno dei grandi del teatro.
Solo per questo il film va visto, da non dimenticare la presenza per la seconda volta di Jeanne Moreau, in un film di Welles, e a sorpresa del nostro Walter Chiari.
Ed ora from Wiki alcune chicche riguardanti il film.
Millantatore, vantone, adiposo, truffaldino, vorace, vitalista,
furfante, educatore anti-sentimentale Falstaff è stato un personaggio
wellesiano fin dal 1939, quando al theatre Guild di Boston il
ventiquattrenne Orson rappresentò un adattamento di cinque drammi
storici di Shakespeare (Five Kings). Ma solo negli anni sessanta, cioè
all'avvicinarsi e poi allo scoccare dell'identità anagrafica con "il più
grande personaggio che abbia scritto Shakespeare", Welles potrà
dedicare a Falstaff Chimes at midnight (Falstaff) prima in versione
teatrale (1960) poi cinematografica: quando Welles gira il film nel 1966
ha cinquantun anni, è entrato nella decade fatale di Sir John, e
comunque in quella stagione d'inverno che il film indica fin dalle prime
inquadrature: neve, secchezza degli alberi, freddo, fuoco. Davanti a
una stufa bucherellata Falstaff e il giudice Shallow ricordano quante
volte hanno sentito "le campane di mezzanotte". È un prologo estraniato
dal racconto, ma che interagisce emotivamente con le immagini seguenti
di morte e devastazione, dei titoli di testa. Armati a cavallo, fumo,
forche con cadaveri appesi. Lo stacco dall'attualità dall'attualità
storica (la guerra civile tra Enrico IV e i feudatari ribelli) non
significa rimbambimento contemplativo, anzi il grado di fascinazione del
Falstaff wellesiano si misura sulla sua capacità di demistificare la
storia e le sue sanguinarie esigenze di immortalità. Nella taverna di
madama Quickly, Falstaff inventa una sua storia che scorre sui fiumi di
malaga e di vin di Spagna. La vecchiaia diventa una stagione
giocondamente creativa perché raggiunge l'immunità dell'innocenza. Se il
Calvero chapliniano di Luci della ribalta
si allude che alla vecchiaia sia indispensabile la verità, il
protagonista di Falstaff è invece ben consapevole che la sua è l'età
della finzione. Altrettanto estranee alla vecchiaia sono le dignità e la
compostezza che Calvero tenta di conservare quando suona il violino per
le strade indossando un'elegante giacca da clown. Falstaff con gli
abiti rattoppati, e un sorriso senza protesi smaglianti, esibisce invece
un rapporto ludico con i suoi anni indecorosi e con la sua pancia
oscenamente pingue. L'autenticità di Falstaff è nella spudoratezza
senile-fanciullesca della finzione, nel vertiginoso illusionismo
verbale, nell'iperbole senza complessi, nel trucco furfantesco e
inoffensivo perché palesemente riconoscibile. Risvegliato da un
bicchiere di birra che Poins e il principe Hal fanno sgocciolare sul suo
viso, Falstaff-Welles inizia il gioco amplificabile all'infinito delle
simulazioni, delle falsità paradossalmente gratuite e quindi non
disponibili alla complicità con il potere.
La birra ha evocato la creatura, e ora Falstaff trasmette
un'immediata eccitazione tra le caldi pareti di legno della taverna
simulando un furto perpetrato nelle sue tasche di ben quaranta sterline e
di un anello di trenta. Mentre i ballatoi si gremiscono di baldracche,
che madama Quickly definisce signorine che fanno cucito, Sir John scende
una stretta scala interna molto adatta a esaltare la mole della sua
corporatura, poi attraversa la sala della taverna e siede al centro come
un re in mezzo alla sua corte. Il primo piano di Sir John Falstaff è
inquadrato tra i visi insinuanti e maliziosi di Poins e del principe
Hal: la "Cattiva compagnia" che ha rovinato quel " figlio di innocenza"
che è Falstaff ora progetta di derubare i pellegrini nel bosco di
Gadshill. Quando all'alba Hal e Falstaff escono dalla taverna e davanti a
loro biancheggiano le mura di Avila (il film è interamente girato in
Spagna) il principe getta la maschera "notturna" e recita il monologo:
"Tutti vi so e vi voglio assecondare, per ora in questa vostra
irrefrenabile vita di ignavie. Con questo intendo fare come il sole che
concede alle nuvole sporche e maligne di sottrarre alla vista il suo
splendore, per potere poi, quando meglio gli aggrada riapparire qual
è…". Dietro questa professione di machiavellismo, ovviamente pronunciata
in primo piano secondo una funzionalità espressiva prescelta da Welles
con assoluta determinazione ("credo che farò molti primi piani. Sarà
davvero un film completamente al servizio degli attori"), compare il
vecchio Sir John illuso che il futuro re d'Inghilterra metterà sul trono
l'immaginazione e ingannerà quella "vecchia buffona" della Legge
affidando a lui il compito di impiccare i ladri. Questa prima sequenza
dedicata a Falstaff se da una parte è già in grado di raggiungere una
totalità espositiva sul personaggio (vecchiaia-finzione-innocenza),
dall'altra svela quella difficile escursione che Welles ha compiuto su
cinque opere di Shakespeare (Enrico IV parte prima e seconda, Enrico V,
Riccardo II, Le allegre comari di Windsor) alla ricerca di un sistema
drammaturgico che si organizzi attorno al magnetismo spettacolare del
grande Sir John: naturalmente quel beffardo e negatore di tutti i nobili
valori (coraggio, onore, saggezza senile) dell'Enrico IV, piuttosto che
quello "revenant" nella convenzione comica dei lazzi e delle burle
delle Allegre Comari. La tecnica dei puzzle e del montaggio contaminante
è visibile in una dimensione "sincronica" anche all'interno delle
singole sequenze. Quella sopra citata contamina almeno tre scene della
prima parte dell'Enrico IV e condensa nell'unità di luogo (l'interno e
l'esterno della taverna di Madama Quickly) anche il monologo del
principe Hal che Shakespeare collocava nella solitudine del suo
appartamento di Londra. In Falstaff la scrittura è tutta preesistente,
tutta "autentica", tutta di Shakespeare o per lo meno d'epoca, come le
Chronicles of England di Raphael Holinshed che, lette dalla voce fuori campo
all'inizio e alla fine del film (incoronazione di Enrico V),
istruiscono sulla storia come "sequenza" di corone, di usurpazioni, di
guerre. Welles si compiace di non aver scritto neppur una riga, di
essersi abbandonato completamente al piacere della recitazione ("Quel
che mi piace in Falstaff è che il progetto mi interessa come attore") e
della messinscena di un'opera che somiglia a uno di quei mobili
rimontati con pezzi "originali d'epoca", ma il cui risultato è
inequivocabilmente "altro". Falstaff è un "falso" scespiriano e non come
l'Amleto di Laurence Olivier
un'opera semplicemente ridotta "per lo schermo" e per "Gertie",
l'immaginaria dattilografa o commessa dai grandi magazzini a cui il film
era destinato. All'Amleto di "massa", di Olivier che taglia i
monologhi, riduce i personaggi, snellisce le situazioni sceniche per
convincere "Gertie" a varcare finalmente le soglie dell'Old Vic e vedere
l'Amleto di Shakespeare, Welles contrappone l'opera di un falsario
raffinatissimo, persino più sofisticato di quel magnifico signore dei
falsari internazionali che è Helmyr de Hory in F for Fake.
Se Hory ricrea Modigliani e Matisse dal "nulla", Welles ricrea
Shakespeare attraverso Shakespeare riproducendo con amore mimetico il
teatro "sacro" che si recita tra le mura di pietra del palazzo reale
(non a caso è l'interno di una chiesa gotica con tanto di raggi obliqui
che attraversano le navate) e il teatro "rozzo" che si recita tra le
pareti di legno e le travi in vista della taverna di Madama Quickly. E
se dalla parte del "rozzo" la ruvidezza di Falstaff e della sua corte
(con Margaret Rutherford come Quickly e Jeanne Moreau come Doll) è quanto di più elegante abbia prodotto Welles dopo L'orgoglio degli Amberson, dalla parte del "Sacro" la scelta di un monstrum scespiriano, di un anti-Olivier per discrezione e compostezza come John Gielgud
nel ruolo di Enrico IV ha la sua preziosità raffinata nel marchio
reale, con il "by appointment" incluso, che garantisce l'alta qualità
delle scatole di biscotti o di tabacco inglesi. Quando Gielgud attacca
il monologo del "sonno", la macchina da presa si ferma nella rispettosa
immobilità di un primo piano. Il "grande attore" di profilo guarda fuori
della finestra verso "l'affumicata capanna del pitocco" e il
piano-sequenza gli assicura un gioco d'ombra sul viso. Il primo piano e
la camera fissa producono quello stesso effetto di isolamento emozionale
che in teatro è riservato al monologo strappa-applauso del primattore e
in cambio Gielgud può offrire alla filmografia wellesiana un pezzo
antologico sulla solitudine e sull'insonnia dei potenti. Anche mr. Clay
di Storia immortale
trascorre le sue notti insonni sulla terrazza, ma poiché è un re
mercante e il suo regno è grettamente economico, starà seduto in trono
voltando sempre le spalle al mondo che sta fuori. L'Enrico IV di
Shakespeare è invece un re-consacrato per necessità storica e la corona e
il "diritto" a portarla estendono l'amnistia morale sugli immancabili
delitti delle origini: il grande Enrico IV non è più il Bolingbroke usurpatore e assassino del Riccardo II.
Solo che Welles in Falstaff è più moralista di Shakespeare nell'Enrico
IV e non concede alla corona il privilegio di rimuovere la memoria di
Bolingbroke. All'inizio del film, mentre un movimento di gru scende
lungo un torrione, le cronache fuori campo di Holinshed ci avvertono che
Enrico IV è diventato re usurpando il trono del legittimo Riccardo e
con questo giudizio etico doppiamente estraniato (nelle Chronicles e
nella voce off) il sovrano Gielgud viene iscritto nel catalogo
dei potenti wellesiani. E dal momento che per il nobile Sir John Gielgud
è senz'altro più difficile allinearsi a Kane o ad Arkadin piuttosto che
"rimanere" su un personaggio di Shakespeare, Welles ri-definisce
eticamente la figura di Enrico IV attraverso un montaggio che assicura
in modo iper-emblematico l'opposizione Falstaff-Enrico IV, ovvero la
didattica della vita e la didattica del potere. Nei casi più trasparenti
il montaggio alternato, che pure è rintracciabile nel linguaggio
scenico dell'Enrico IV come rappresentazione parallela della Storia (il
quotidiano e i grandi eventi) e come forma drammaturgica "totale" (il
"Rozzo" e il "Sacro" che vi legge Peter Brook), diventa in Falstaff dialettica degli opposti sottesa da un'esigenza morale.
Se Leland ha creduto in un plutocrate "diverso", idealista e
rooseveltiano, Falstaff ha immaginato un re d'Inghilterra che smascheri
la tradizione ipocrita dei "valori". Quando alla taverna di Madama
Quickly Falstaff mette in scena l'incontro tra il re e il principe, il
Teatro Rozzo, "il teatro che non è in teatro", ma "tra spettatori che
bevono attorno ai tavoli d'osteria", deforma parodisticamente il Teatro
Sacro: per il Falstaff di Welles la corona, oltre che cuscino da mettere
in testa, come per il Falstaff di Shakespeare, è una pentola di latta
di cui quella d'oro e gemme è solo un arrogante imitazione. Durante la
doppia rappresentazione (Falstaff-Enrico IV, Hal-se stesso; Hal-Enrico
IV, Falstaff-Hal) Welles alterna i campi e controcampi che mantengono in
quadro entrambi i personaggi come nell'estremo incontro tra il re e il
principe. Ma rispetto a quella sequenza e alla sua orizzontalità
significante figlio = padre, nella messinscena del "Rozzo" il punto di
vista della macchina da presa sceglie l'avvicendarsi di forti
angolazioni dal basso all'alto per indicare un rapporto spaziale
ludicamente intercambiabile e capace di proseguire all'infinito, se non
forse arrestato in modo brusco dall'arrivo di un "odioso" sceriffo
preceduto dai suoi cani. Al di fuori del gioco ritmico dei campi e
controcampi l'inquadratura di Falstaff issato su un tavolo, con la
pentola in testa e sulle spalle il saio indossato per la rapina a
Gadshill, trova riscontro simmetrico e di segno opposto
nell'inquadratura vertiginosamente angolata dal basso di Enrico V
sacralizzato dalla corona, dalla scettro e dalle elevate architetture
del palazzo. Se, con Gielgud, Welles ha evitato la convenzione di
raffigurare la regalità attraverso inquadrature angolari (basso/alto),
con Falstaff che "fa" Enrico IV e con Hal che è Enrico V l'uso
dell'angolazione dal basso verso l'alto diventa un efficace dispositivo
di amplificazione del senso che asseconda nel primo caso l'effetto
caricaturale e la duplicazione esorcizzante e nel secondo la monumentale
lontananza di Enrico V che elimina il vecchio Falstaff non con una
schietta pugnalata ma con la difesa "politica" delle virtù. È ancora
l'angolazione dal basso è utilizzata da Welles per riprendere per
riprendere con ironico affetto le esuberanti pulsioni alla gloria di
Hotspur, eroe troppo giovane, e "sacro" per sapere, come invece ben sa
Falstaff, che l'onore non restituisce la vita e che il coraggio è solo
vin di Spagna. Dopo il colloquio con Enrico IV (prima sequenza del film
oltre il prologo) la macchina da presa insegue con brevi carrelli
laterali la legittima insofferenza di Hotspur verso il re usurpatore, e
poi con un'angolazione che parte dallo stesso livello del pavimento
Welles esalta la sua figura mantenendola a una distanza che ne rispetta
l'interezza e la non deformabilità: se Enrico IV non vedesse come "fumo
negli occhi" il principe Hal, egli saprebbe annegarlo in un bicchiere di
birra. E quando le occasioni di gloria (e di morte) vengono finalmente
offerte dalla battaglia si Shrewsbury la macchina da presa segue
l'entusiasmo di Hotspur che campisce nella sua maglia di ferro su uno
sfondo a tutto cielo. Per contrasto la battaglia sarà un lurido
scannatoio che un punto di vista sempre più interno, sempre più
partecipante, sempre più "rozzo" riferisce con totale ignoranza delle
sublimazioni epiche. Consumati in fretta i campi lunghi della carica di
cavalleria, Welles frantuma gli scontri in piani ravvicinati con i
cavalieri massacrati a colpi d'ascia dai fanti e dalle mazze di legno
dei bifolchi, poi privilegia l'uso di inquadrature dal basso in modo
descrittivamente "scorretto", con il primo piano dell'inquadratura tutto
ingombro di elementi "inessenziali" come un cavallo morto o un soldato
caduto. Ma forse è questo il punto di vista più legittimo per descrivere
una battaglia: l'angolazione carica di orrore "soggettivo" di chi giace
a terra accanto ai cadaveri e sta per morire. A parte i comici
intermezzi di Falstaff che si nasconde tra le siepi e il duello tra Hal e
Hotspur, estraniato in un romantico boschetto da incisione inglese, la
battaglia di Shrewsbury si rapprende nei piani ravvicinati e in una
gromma di fango e sangue che confonde i combattenti e impasta
progressivamente i loro gesti nella morte.
Qui abbiamo un racconto adattato a diverse opere di Shakespeare, facendone un racconto originale e di incredibile avventura.
E' certamente un film particolare, che bisogna guardare attentamente e seguire in modo che si capisce bene.
Tutti i film diretti dal grande Welles, bene o male sono indimenticabili, perchè principalmente lui era un genio, uno dei giganti della settima arte.
La particolarità di questo film sta appunto nel mettere in scena diverse opere del bardo, Enrico IV, Enrico V, Le allegre comari di Windsor e Riccardo II
Soltanto Welles, poteva unire quattro opere diverse del bardo in un unico grandissimo film.
E non solo, lo ha anche interpretato, lui, omone gigantesco, forse truccato o forse no, non ci è dato a saperlo, colpisce proprio sia per la bravura interpretativa, sia per la regia attenta e che rispetta lo stile pungente del bardo.
E' un opera particolare, quindi per questo motivo l'ho messo nei cult movies,di difficile reperibilità, io l'ho beccato grazie al p2p e me lo sono goduto.
Naturalmente c'è da dire che ogni sfaccettatura della pellicola ti colpisce, sia per la capacità di Welles, di conoscere bene la trama di queste opere e di ricavarne un mix facendone un film tutto suo e rendendo omaggio a uno dei grandi del teatro.
Solo per questo il film va visto, da non dimenticare la presenza per la seconda volta di Jeanne Moreau, in un film di Welles, e a sorpresa del nostro Walter Chiari.
Ratings ⭐️⭐️⭐️1/2
Ed ora from Wiki alcune chicche riguardanti il film.
« Be'
Hal non diventa re Enrico V così per caso. Fin dal principio tiene di
mira, con uno sguardo lucidamente spregiudicato, la gloria e la dignità
future. Ce lo dice di continuo, per tutta la storia; ci da un bel
preavviso. È un giovanotto complicato, con una curiosa, quasi spettrale
freddezza interiore. E poi c'è anche il fascino, il cameratismo, la joie
de vivre; fa tutto parte della sua vocazione, della dotazione
indispensabile al perfetto principe di Machiavelli. In altre parole è
quella terribile creatura, un grande uomo di potere. » |
(Orson Welles intervistato da Peter Bogdanovich[1]) |
« Penso che sia uno dei pochi grandi personaggi essenzialmente buoni
della letteratura drammatica. È buono nel senso in cui gli hippie sono
buoni. Tutta la commedia è giocata sui suoi grossolani difetti, ma sono
difetti tanto banali: la sua famosa codardia è uno scherzo. Uno scherzo a
suo danno, come se Falstaff continuasse a prendersi in giro tra sé; in
realtà ci sarebbero forti argomenti a sostegno del suo coraggio. Ma la
sua bontà è elementare, come il pane, come il vino. Trabocca d'amore;
chiede tanto poco, e alla fine, naturalmente, non ottiene nulla. Anche
se i bei vecchi tempi non sono esistiti mai, il solo fatto che riusciamo
a concepirli è un'affermazione dello spirito umano. Che l'immaginazione
dell'uomo sia capace di creare il mito di tempi più aperti e generosi
non è un segno della nostra follia. Ogni paese ha la sua <<Merrie
England>> una stagione di innocenza, un mattino del fondo fresco
di rugiada. Shakespeare canta di quel <<maggio perduto>> in
molti dei suoi drammi e Falstaff - quella vecchia canaglia d'un mangione
- lo incarna perfettamente. Tutta la canaglieria, le spiritosaggini da
taverna, le bugie e le fanfaronate sono solo un tratto marginale, solo
una maniera di sposare pranzo e cena. Non sta lì, il vero Falstaff. » |
(Orson Welles intervistato da Peter Bogdanovich[1]) |
- Bosco di Gadshill. Falstaff e compagni travestiti da frati ladri (cappa nera sul saio bianco) derubano i ladri.
- Reggia di Windsor. Enrico IV biasima la condotta trasgressiva del principe Hal e ordina di rintracciarlo nelle taverne di Londra.
- Taverna di Madama Quickly. Poins e hal provocano Falstaff al racconto dell'impresa di Gadshill. "Rozza" rappresentazione dell'incontro tra il re e il principe con Falstaff e Hal nei due ruoli alternati.
- Reggia di Windsor. "Sacro" incontro tra Enrico IV e il principe. Sua promessa di risarcire l'onore reale uccidendo in battaglia il valoroso Hotspur. Nel recinto del "sacro", la macchina da presa di Welles non tenta di aggiungere senso alle esibizioni di Sir John Gielgud, evita le angolazioni dal basso di Quarto Potere, sfuma gli effetti ridondanti in omaggio alla teatralità classica e introspettiva che l'attore inglese conferisce al peso "divino" della corona di Enrico IV.
« Così naturalmente si sacrifica una parte degli effetti comici più
forti. Lo so. Ho rinunciato a ragion veduta a qualcuno degli effetti più
comici per recitarlo a quel modo. » |
(Orson Welles intervistato da Peter Bogdanovich[1]) |
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